Il Lavatoio di San Domenico / 2

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Pubblicato la prima volta il 10 Agosto 2018 @ 09:49

(Prosegue dalla prima parte)

…Sotto l’arco di mezzo, dunque, doveva sicuramente scorrere la Fossa Fontana, circondata da un bel manufatto in laterizio e pietra che lo rendeva simile ad una vasca, che le cronache del tempo ci dicono di forma lunga e stretta con le due estremità fuori terra raccordate in tondo, capace di 58 metri cubi d’acqua e 49 posti, dei quali solo una parte sottostanti la copertura preesistente, capitata quindi a fagiolo per il comodo delle lavandaie quando negli anni di fine secolo la comunità decise di impiantarvi sotto un lavatoio che, per la sua vicinanza all’omonima chiesa, non avrebbe potuto che chiamarsi di S.Domenico. E, a pensarci bene, dato che non s’ha notizia che all’epoca esistessero pompe per il sollevamento dell’acqua della fossa, le poverette molto probabilmente vennero messe in grado di poggiare i piedi in un sito leggermente ribassato rispetto al piano stradale circostante, perché così e solo in questo modo è ipotizzabile che potessero comodamente lavorare senza rompersi la schiena.

In buona sostanza quindi, come ci ha tramandato lo storico Carlo Tonini, il lavatoio originale dovette essere attivo fin dagli ultimi anni del Settecento. Mentre la chiesa di S.Domenico venne definitivamente abbattuta nel 1818, la Residenza della Santa Inquisizione e la loggia antistante durarono in piedi fino ai primi anni del Novecento, quando l’intera zona a Nord-Est di Rimini venne interessata da un progetto urbanistico che ne stravolse la viabilità, originando tra il 1906 e il 1927 le attuali vie Tonti, XXII Giugno, Clementini e l’ottagonale piazzetta Plebiscito (1906-Piano Regolatore Nord-Est, Ing. Camerani).

Il lavatoio di S.Domenico, come giustamente sostiene il Pedrazzi nel suo articolo, venne chiuso nella seconda metà dell’Ottocento, dopodiché pure il Rigagnolo venne interrato previa tombinatura della fossa. Il Pedrazzi, nel citare la relazione datata 1865 dell’ing. Gaetano Urbani (il progettista del Kursaal) diretta al Prefetto della Provincia di Forlì, dove quel tecnico comunale segnalava che in aggiunta ai lavatoi naturali dei fiumi Marecchia e Ausa e delle fosse Mavone e Patara, oltre a quello artificiale di Sant’Andrea, esisteva anche quello di San Domenico, intendeva sicuramente riferirsi a quello di cui ho appena favellato, “alimentato dai ricaschi della fontana regolarmente condottati e giornalmente espurgato da apposito custode, data la sua vicinanza all’ex chiesa e convento di S.Domenico…”. 

Tra il 1862 e il 1872 (sono gli anni immediatamente successivi alla costituzione del Regno d‘Italia), a conclusione di una lunga polemica innescata dai proprietari delle case vicine per la pochezza dei ricaschi ingrossati dall’immissione abusiva lungo il corso del rigagnolo di ogni sorta di sozzure e in causa delle malsane condizioni igienico-sanitarie venutesi conseguentemente a creare, il Comune dovette prendere in seria considerazione l’eventualità di spostare il lavatoio in un sito più acconcio. La scelta ricadde sulla piazzetta San Domenico antistante l’ex convento, dove fin da tempo immemorabile esisteva una fontanina. Per motivi strettamente economici il manufatto, che gli ingegneri comunali sulle prime avevano ipotizzato in belle forme classicheggianti, con un ricco colonnato di sedici pilastri sormontato da archi da collocarsi al centro della piazzetta, venne scartato, preferendosi alloggiare il nuovo lavatoio sotto un modesto porticato costituito da una copertura in legno e  coppi da appoggiarsi alla mura dell’ex convento, sostenuto da cinque pilastri in muratura (in fase esecutiva ne verranno invece costruiti sei, come a dire che sarà fatto più lungo). Questo nuovo lavatoio, come da progetto approvato reso immediatamente esecutivo, conforme al tipo economico caldeggiato dal deputato Paolo Garattoni, venne subito realizzato, servendo “ d’acqua vergine e netta pel servizio di tutta la popolazione circostante specialmente del Porto che dimostrava gran soddisfazione di una simile provvidenza”, continuando ovviamente a chiamarsi, come il precedente, di S.Domenico. La sua grande vasca però, manomessa per ben cinque volte dai vandali, dopo soli diciotto mesi dalla sua costruzione venne smantellata. L’ingegnere comunale Crudomiglia s’incaricò allora di prenderne in consegna dal fontaniere le parti “del piccolo edificio, onde a miglior tempo rifarli nel luogo”; ma in seguito, non solo queste non vennero più riutilizzate, ma di loro non si seppe mai più nulla. Restò comunque in piedi la copertura, la quale durò fino ai primi anni del Novecento quando, una volta approvato il piano di urbanizzazione della zona di Nord-Est della città redatto dall’ing.Camerani, fu posta mano alla demolizione di tutto ciò che insisteva nel tratto compreso tra la Tenagliozza (ora piazzale Martiri d’Ungheria) e la Porta di Marina (ora Corso Papa Giovanni XXIII), e tra la strada nazionale per San Marino (ora via Roma) e le mura aureliane (via Cattaneo).

Al tempo stesso venne deciso il suo spostamento nell’angolo lato monte tra il murazzo del porto e la Porta Galliana. Già nel 1905 s’ha notizia che la Giunta municipale abbia approvato la costruzione di un impianto idrico sussidiario per fronteggiare la scarsità d’acqua utile all’approvvigionamento di quel lavatoio, di enorme utilità anche al vicino ospedale (quello di via Tonini, ora Museo Civico), mediante terebrazione di due pozzi artesiani.

Questo lavatoio, esistito dunque fino all’ultimo dopoguerra, attraverso la testimonianza di alcune persone tuttora viventi, o scomparse da poco, sappiamo bene come e dove era. Sottostava una copertura non tanto ampia in materiale leggero tipo Onduline o Eternit assolutamente priva di colonnato, ed era provvisto di sette grandi vasche rettangolari scavate nella viva pietra d’Istria, quattro sul lato del porto canale e tre dall’altro. Un cannone d’acqua, perché di cannone trattavasi e non di una semplice cannella come nella fontanina precedente, fuoriusciva alta dal muro in una postazione molto vicina all’arco di porta Galliana, colmando una dopo l’altra tutte le sette vasche comunicanti attraverso fori praticati nelle pareti a contatto, assicurando un veloce ricambio. Le acque reflue, infine, venivano scaricate direttamente in porto. E sempre a proposito di questo lavatoio, che era proprio di fronte alla casa rossa, ovvero al Casino della Strana, vi invito a leggere il curioso episodio accaduto negli anni Trenta a tre notissimi e allegri compagni di borgata, Federico Fellini, Titta Benzi e Corrado Bongiovanni, che qualche anno fa ho avuto il piacere di udire da uno dei suoi diretti protagonisti, ovvero il povero Elio Betti soprannominato Parigi, recentemente scomparso .

In aggiunta al lavatoio di San Domenico, attraverso la relazione dell’ing.Urbani del 1865, fuori Porta Montanara veniva confermata la presenza di un secondo lavatoio artificiale, semplicemente detto dai riminesi “e lavadur“.  Nel 1873 l’ ingegnere s’impegnò a riparare le piane in pietra d’Istria costruite qualche anno prima dallo scarpellino Ludovico Simoncini, sostituendole con altre in pietra di S.Marino. La sua lunghezza  doveva essere di una cinquantina di metri. Inizialmente scoperto, nel 1901 il Consiglio Comunale approvò il progetto per la sua copertura, decisa in muratura considerando “la minor spesa e la maggior durata“. Ma già fin dal 1885 questo lavatoio aveva ricevuto delle migliorie, consistenti nella terebrazione di nuovi pozzi Northon per addurgli una maggiore quantità d’acqua, più facilmente ricambiabile nonostante il timore di perdere il beneficio della presa d’acqua proveniente dalla Fossa Padulli. Questo lavatoio continuò a funzionare fino ai recenti anni Sessanta, quando, secondo l’aberrante filosofia di quegli anni, ne fu decisa la parziale demolizione e il suo completo interramento. Fortunatamente  intorno ai recenti anni Ottanta l’amministrazione comunale ha deciso di riportarne alla luce un pezzo lungo una ventina di metri, affidandone il recupero all’architetto comunale Renzo Sancisi. Oggi chiunque può ammirare come erano fatte le lavatrici del Sette-Ottocento in via Lavatoio, poco più a monte rispetto all’angolo con via delle Fosse. Peccato però che non si possano più ammirare i culi delle lavandaie, neppure sempre belli.

Paolo Semprini

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