Parlate riminesi #10

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Archivio storico Chiamami Città

Pubblicato la prima volta il 13 Novembre 2016 @ 18:00

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Dopo aver analizzato per diverse settimane il comportamento delle vocali non accentate, la volta scorsa abbiamo sollevato un problema legato allo sviluppo delle vocali accentate, e precisamente quello della A accentata. Preso atto che nell’area riminese da PÀLO si ha ‘pèl’, ci aspettiamo in genere di trovare ‘è’ come esito di A davanti alle consonanti semplici, e in effetti in molte parlate da TÀVOLO si ha ‘tèvul’ o ‘tèvle’ o ‘tèvli’; ma ho anche detto che verso sud si trovano alcune parlate che, pur http://www.cialisgeneriquefr24.com/cialis-en-pharmacie-avec-ordonnance/ avendo ‘pèl’ come esito di PÀLO, hanno ‘tàvle’ come esito di TÀVOLO (e solitamente anche ‘càvle’ come esito di CÀVOLO). Come si spiega questa apparente irregolarità?

Per prima cosa bisogna ricordare che parole come TÀVOLO e CÀVOLO avevano l’accento sulla terzultima sillaba. Ora, queste parole nelle regioni in cui si sono conservate le consonanti doppie (parlo delle doppie vere e proprie, come quelle dell’italiano) mostrano una particolarità: molto spesso dopo la vocale accentata si trova una consonante doppia non etimologica, nel senso che l’etimo latino non aveva la doppia, per cui il raddoppiamento è avvenuto spontaneamente durante lo sviluppo del volgare. Questo fenomeno è molto frequente ma anche molto variabile: a distanza di pochi chilometri si trovano spesso le due varianti, con e senza doppia. La cosa si verifica anche in Toscana, ma nella lingua letteraria è meno frequente, forse perché in linea di massima i letterati preferivano la variante più simile all’etimo latino. Ad ogni modo ci sono alcuni casi anche nella lingua letteraria. Ad esempio dal latino classico FEMINAM in italiano si ha “femmina”, e da MACHINAM si ha “macchina”. In passato di queste varianti con la doppia se ne trovavano anche di più. Ad esempio da AFRICAM un tempo si aveva “Affrica”, ma oggi si preferisce la variante “Africa”. Come dicevo, nei dialetti il fenomeno è molto più frequente, e riguarda soprattutto le consonanti nasali N e M. Così sfogliando i ‘Sonetti’ del Belli si trova ‘stommico’, ‘cammera’, ‘cennere’, ‘cocommero’ da STOMACHUM, CAMERAM, CINEREM, CUCUMEREM. Questa tendenza al raddoppiamento peraltro è molto antica: è attestata con certezza attorno al 700 d.C., ma probabilmente era presente già alcuni secoli prima.

Tenuto conto di tutto ciò, se ipotizziamo che anche in Romagna sia avvenuto lo stesso fenomeno, possiamo supporre che qua e là nel volgare si trovassero anche le varianti TÀVVOLO e CÀVVOLO. Che esito avrebbero dato queste varianti?

Abbiamo visto che la A accentata è diventata ‘è’ davanti alle consonanti semplici (o a nessi consonantici equivalenti alle semplici), mentre davanti alle doppie si conserva come ‘a’, e cambia solo quantitativamente, nel senso che si allunga, per cui la consonante, da doppia che era, diventa semplice. I lettori ricorderanno forse alcuni esempi fatti in precedenza: da GÀTTO, GÀTTA, LÀTTE, SÀCCO, CÀLLO, PÀNNO si sono avuti gli esiti ‘gàt’, ‘gàta’, ‘làt’, ‘sàc’, ‘càl’, ‘pàn’.

Ebbene, applicando questa regola di derivazione all’ipotetica variante TÀVVOLO, si deduce che la A accentata si dev’essere conservata, mentre la V da doppia dev’essere diventata semplice. Se questa variante fosse comparsa nelle parlate urbane che tendono a conservare la penultima vocale non accentata, oggi si direbbe ‘tàvul’ anziché ‘tèvul’, ma io la variante ‘tàvul’ non l’ho mai sentita, per cui in città doveva aversi la variante TÀVOLO. Se poi la variante TÀVVOLO fosse comparsa nelle parlate in cui si ha ‘lèdri’ da LÀDRO, oggi si direbbe ‘tàvli’, ma anche questa variante non mi è nota, per cui evidentemente si diceva TÀVOLO anche verso nord. Invece in alcune zone a sud, dove LÀDRO dà l’esito ‘lèdre’, si dice ‘tàvle’, e allora capiamo che qui doveva essersi imposta la variante TÀVVOLO.

Ora che abbiamo capito questo meccanismo ci siamo avvicinati un po’ di più alla soluzione del problema costituito dal nome della città di Rimini, ma manca ancora una cosa.

Nei dialetti romagnoli non è solo la A accentata ad aver avuto due possibili sviluppi, a seconda del contesto determinato dalle consonanti seguenti. Anche le altre vocali in genere hanno due esiti possibili. Prendiamo ad esempio la I accentata. Nel riminese davanti a una consonante semplice si è conservata; ad esempio da FÌLO e AMÌGO si sono avuti gli esiti ‘fìl’ e ‘amìg’. (Le cose sono andate diversamente davanti alla N: da VÌNO si ha ‘vèin’, non ‘vìn’. Ma questa è una particolarità che per ora possiamo trascurare.) Invece davanti a una consonante doppia si è aperta fino ad ‘é’, restando breve. Così da DRÌTTO, GRÌLLO si hanno gli esiti ‘drétt’ e ‘gréll’.

Ora finalmente siamo pronti per affrontare la difficile questione del nome della città. L’etimo latino originario era ARIMINUM. Lo scriviamo così perché la grafia tradizionale messa a punto dai Romani non distingueva le vocali lunghe da quelle brevi, ma bisogna considerare che delle due I la prima era lunga e la seconda breve. È proprio perché la seconda era breve che l’accento è “risalito” dalla penultima vocale alla terzultima, che era appunto una I lunga. Ora, applicando le regole note di derivazione dal latino al volgare, da ARIMINUM si sarebbe dovuto avere ARÌMENO (la I breve in origine ha dato E nel volgare). Questa però è una parola che ha l’accento sulla terzultima vocale, e ormai sappiamo che in queste parole c’era la tendenza a raddoppiare la consonante che si trovava dopo la vocale accentata, soprattutto se si trattava di una M o una N (ricordiamo gli esempi tratti dal romanesco del Belli: ‘stommico’, ‘cammera’, ‘cennere’, ‘cocommero’). Dunque ci aspettiamo che nel volgare si trovassero due varianti: ARÌMENO e ARÌMMENO.

Per sapere quale delle due varianti si fosse imposta a Rimini dobbiamo andare a vedere l’esito della vocale accentata. In tutte le varianti note si trova ‘é’, vocale breve seguita da consonante allungata: ‘Rémmin’, ‘Rémmne’, ‘Rémmni’. Quindi nel volgare doveva essere ARÌMMENO.

Quanto agli sviluppi delle vocali non accentate, ormai abbiamo capito come vanno le cose: cadono o si riducono. La O finale cade sempre, e questo lo sappiamo. Anche la A iniziale cade. Anzi, questa ha una propensione a cadere non solo nei dialetti romagnoli, ma anche nelle regioni dell’Italia centrale, tant’è che spesso manca anche in italiano. Ad esempio “ragno” deriva da ARANEUM. Resta quella E che, essendo una vocale “libera”, in toscana si è ridotta a “i”, mentre a Rimini può ridursi o cadere. Se si limita a ridursi ha ‘Rémmin’, mentre se cade si ha virtualmente ‘Rémmn’, che ha bisogno della vocale aggiuntiva non etimologica, sicché si hanno i due esiti ‘Rémmne’ e ‘Rémmni’.

Se è vero che nel volgare anticamente si diceva ARÌMMENO, come mai in italiano abbiamo finito per dire “Rimini”? Questa è una domanda a cui è molto difficile rispondere, perché gli sviluppi regolari si trovano solitamente nelle parole derivate per via popolare, cioè attraverso il popolo, che parla spontaneamente e si regola “a orecchio”, senza riflettere su ciò che dice. Quando intervengono i letterati, che cercano di riflettere consapevolmente su cosa sia “meglio” (di solito perseguono il “più prestigioso”) ognuno di essi si porta dietro le sue convinzioni e i suoi pregiudizi su come dovrebbe essere la lingua, dopodiché a volte si impongono certe tendenze e a volte altre. Abbiamo già visto, ad esempio, che in letteratura le parole che hanno l’accento sulla terzultima vocale si trovano spesso senza la doppia, com’erano originariamente in latino, mentre la doppia resta a livello popolare. Così possiamo ipotizzare che i letterati, avendo ben presente l’etimo ARIMINUM, non abbiano seguito l’orecchio nell’interpretare la parlata popolare. Quanto alla “i” finale di “Rimini”, si possono avanzare diverse ipotesi. Questo però è un problema che mi appassiona di meno, per due ragioni. La prima è che la variante “Rimino” è ampiamente documentata dai testi antichi, per cui posso dire di aver già trovato quel che cercavo. La seconda è che qualunque vocale finale diversa da A sarebbe caduta (per lo meno virtualmente), per cui avremmo avuto comunque lo stesso esito.

Davide Pioggia

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