“A magném mèj che né i sgnùr”

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Pubblicato la prima volta il 13 Dicembre 2015 @ 18:30

“Cosa ci hanno lasciato” di Grazia Nardi
Vocabolario domestico: “A magném mèj che né i sgnùr”

A casa nostra si mangia meglio che in quella dei ricchi. E’ un commento che ho sentito spesso, allora. E non vuol essere nostalgia e tantomeno retorica per un periodo in cui ti consolavi solo guardando chi stava peggio e neppure è vero che “almeno c’era la speranza nel futuro”. E’ che il passato rappresentato dalla guerra, dalle sue macerie, non solo fisiche, era talmente brutto che il presente era già futuro.
C’era la presunta consapevolezza di una superiorità gastronomica. Questo sì. Anche con pochi ed essenziali alimenti o ingredienti le nostre mamme, sfruttando ogni foglia, ogni, seppur raro, avanzo, inventavano le ricette che oggi appartengono alla peculiarità della cucina romagnola e riminese. Eravamo convinti, appunto, che “nùn a magném mèj che né i sgnùr”, che s’immaginavano alle prese con cibi raffinati quanto insipidi; ”zènta clà n’ha mai cnusù..e’ cutghìn, la pieda sé strót, i cassùn sal ròsòli, l’insalèda slà zväla, e’ sùg slà sùnsezza….”. E questo ci riscattava da tutto il resto.

E non credo sia casuale che la mia generazione metta il cibo tra i primi posti della scala acquisti.

Poi è vero, per rimanere in tema senza pretesa di approfondimenti sociologici, che ci potremmo interrogare sul Natale dei nostri giorni. Se il modo di festeggiarlo riflette la condizione economica e lo stile di vita, oggi come dovrebbe essere? Così com’è? Con i panettoni esposti negli scaffali già a settembre dove rimarranno in gran parte invenduti fino alla svendita del “prendi 3 e paghi 2” o alla sostituzione con le colombe pasquali che avverrà subito dopo l’epifania anche con la Pasqua prevista per fine aprile? Con gli addobbi di plastica e le palle colorate che cadendo dall’albero rimbalzano ripetendo un rumore sinistro ed irritante mentre il bello stava proprio lì…. che cadendo si rompevano, per cui si avvolgevano, ovattavano come fossero cristalli preziosi! Fino all’aberrazione di chi l’albero, a gennaio inoltrato, lo ripone nel garage con le palle appese, pronto per il natale successivo? Con i regali forzati scelti non in base alle possibilità economiche ma in virtù del grado di simpatia del destinatario? Conosco chi li compra ad agosto, “così non ci penso più”. Fino ad arrivare alla perfidia di chi, incontrando il parente che, tapino, è “rimasto” solo, gira lo sguardo altrove ad evitare il rischio di doverlo invitare per il gran pranzo. E se proprio ti viene a sbattere in faccia, allora si tenta il dribbling “quest’anno andiamo in montagna… tanìmodi un è pió cmè na volta… i fiól jè grand.. …”.

Per poi arrivarci davvero, al grande passo. Pranzo di Natale al ristorante con la famiglia allargata, cui seguono i commenti della sera: “Saremo stati bene? Alla fine abbiamo speso meno che a casa… eppoi vuoi mettere la comodità?”. Dopo una settimana: “Però i caplétt in sassùrmèja gnènca mi nòst…. De rèst com’ì putrìa fè! Lór i prepara a ferragòst e po’ i mett ti frgor!”. Dopo dieci giorni: “I dis dandè magnè fòra… ja curaz da dì ‘è pasta fatta in casa’! Te sentì e vèin? Frèid! Va là chi s’è fatt furb!”

Mentre i più evoluti socialmente si possono permettere la differita: “A Natale non è possibile… magari ci troviamo la settimana prima!”. Tanto che il 25 dicembre sta diventando una data indicativa con, tra le poche certezze la trasmissione, in TV, del film “La tunica”.

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