Sulla spiaggia di Rimini tra XVII e XVIII secolo

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Ex voto con scena di naufragio, Santuario di Santa Maria delle Grazie, Rimini.

Pubblicato la prima volta il 2 Maggio 2017 @ 09:41

Ex voto con scena di naufragio, Santuario di Santa Maria delle Grazie, Rimini.

Presso la Biblioteca Gambalunga di Rimini, scrigno di tesori poco conosciuti, si trova un interessante fascio di carte datate tra il 1684 ed il 1705, custodite nel fondo Gambetti e relative ai ritrovamenti di materiali galleggianti o spiaggiati sul litorale riminese. La mattina del 2 agosto 1684, ad esempio, Francesco Maria de’ Giorgi e Giulio Cesare Nanni, del borgo di San Bartolomeo, si imbatterono «sulla spiaggia del mare à dirittura di S.to Gaudentio» in un battello «iudicato da loro di marziliana», una tipologia di imbarcazione di origine veneziana utilizzata a scopo mercantile, lungo l’Adriatico, tra il XVI ed il XVII secolo. Due giorni dopo comparirono al cospetto del Depositario Camerale il maestro Giuseppe Quazini da Rimini, costruttore della barca, e Paron Lodovico Pezoli da Ravenna, il proprietario, al quale essa venne riconsegnata.

Ciò che il mare riconsegnava, di solito dopo una tempesta, era per la maggior parte costituito da materiale d’uso marinaro: «una vella straciata, un timone, doi o tre capi di corda» vengono riconsegnati al Paron Filippo Trevisan il 30 settembre 1684. Una gaeta, imbarcazione per la pesca comune in Dalmazia fino al XVII secolo, ma il cui nome origina dall’omonima città laziale, venne ritrovata da Benedetto da San Lorenzo in Strada il 9 maggio 1685 e riconsegnata al legittimo proprietario, Paron Giuseppe d’Antonio, da Francesco Manganoni, Depositario Camerale. Il 5 maggio 1686, forse in seguito ad una mareggiata, vennero ritrovati «a Marina» ben quaranta barili di «rasa di pino» ossia di resina, prezioso materiale il cui uso variava dall’ambito veterinario, in cui era utilizzata miscelata ad altre sostanze per guarire i cavalli dal mal delle reni o da tendiniti, a quello domestico, dove insieme a calce viva, zolfo, polvere da sparo, bacche di ginepro, aceto e acquavite era impiegata per disinfettare le case dalla peste. In quell’occasione, a ritrovarne ben ventisei fu Domenico Zanini detto Testagrossa. Gli oggetti erano custoditi per un anno, nell’attesa che il legittimo proprietario si fosse fatto avanti reclamandone la proprietà: spesso, quando un’imbarcazione recuperata era ancora in grado di galleggiare, essa era data in custodia affinché fosse legata alla «barca della Comunità». Passato tale periodo, se nessuno aveva manifestato un reale interesse per i materiali ritrovati, essi erano venduti, come nel caso di un «timone da barcha» ritrovato nel 1685 e venduto per 140 scudi nel 1690. Del ricavato, in genere, una parte spettava alla Reverenda Camera Apostolica, una a coloro che avevano ritrovato «le robbe», una era destinata a coprire le spese effettuate per il recupero e/o il trasporto e, a volte, una parte era data alla pubblica carità o impiegata per la celebrazione di messe.

La spiaggia di Rimini, part. della ‘Veduta del Porto di Rimini’ di Francesco Mazzuoli (1788), Biblioteca Nazionale, Firenze.

Non necessariamente il destino dei vari ritrovamenti era la vendita, dato che potevano anche essere ceduti in prestito per un certo periodo di tempo. È il caso di Paron Giovanni, che l’8 maggio 1690 dichiarò di aver ricevuto in prestito da Giovanni Battista Zollio, Depositario del Tesoriere della Provincia di Romagna, un battello «ritrovato in Marina da Antonio Bononi»; il Paron si impegnava a restituirlo entro un mese nelle stesse condizioni in cui gli era stato affidato. Questa clausola permise al Depositario di non essere obbligato a rifondere delle spese il Paron il quale, evidentemente, aveva apportato «qualche cosa di nuovo» all’imbarcazione. Altre volte ancora gli oggetti ritrovati erano ceduti in comodato d’uso: è questo il caso di un’ancora di duecentoquarantacinque libbre «peso di Rimini» che il già citato Giovanni Battista Zollio cede il 2 gennaio 1699 a Giovanni Andriani che si impegna in un duplice accordo: se entro il termine fissato il padrone dell’ancora fosse uscito allo scoperto, egli sarebbe stato tenuto a restituirgliela; se invece questo non fosse accaduto, egli avrebbe dovuto corrispondere alla Reverenda Camera Apostolica il corrispettivo in denaro del valore dell’ancora, ovvero sei scudi e quarantatré baiocchi. Non sempre le cose andavano per il verso giusto: il 27 aprile 1687 Bastiano Belli dalle Celle affermò di aver trovato un battello «alla spiaggia sopra la Viserba» ma, come notifica nella carta a fianco uno degli anonimi compilatori di questi scritti, «il dicontro Batello fu rubato».

I ritrovamenti avvenivano lungo tutto il litorale di competenza della città di Rimini, da Cattolica a Bellaria: il 6 febbraio 1696 Matteo Pronti «da Rizzone» rinvenne un albero maestro in più pezzi «su la spiaggia al fiume della Trinità», ossia nei pressi della foce del torrente Marano; altri ritrovamenti si ebbero «in Marina dalla Colonnella» (13 novembre 1697); «alla spiaggia tra il terzo e il secondo», ossia in linea d’aria tra il terzo ed il secondo miglio dalla città, lungo la via Flaminia (8 luglio 1686); «dietro la spiaggia di là dal Ausa» (2 luglio 1688); «sotto li monti da Pesaro – idest 20 miglia lontano da Tera» (19 dicembre 1688); sulla «spiaggia della Marina alle fontanelle», sul litorale riccionese (11 dicembre 1691).

Va segnalata una curiosità: le notazioni si arrestano, ogni anno, quasi sempre verso novembre o dicembre, probabile limite massimo per le uscite al largo, e ricominciano verso marzo o aprile, quando con la primavera in genere ritornava anche la possibilità di riprendere il mare.

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