“Us dà n’impùrtènza…”

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Pubblicato la prima volta il 23 Maggio 2017 @ 00:00

“Cosa ci hanno lasciato” di Grazia Nardi
Vocabolario domestico: “Us dà n’impùrtènza…”

Si dà troppe arie, ma questa espressione dialettale (naturalmente può essere volta anche al femminile) è la più ingentilita rispetto a “l’è un sburòun”, “un prochèga”, “na pacòuna”, “è sta drét… che pér l’abia ingùlè è mang dlà spazadura…”. Insomma, quelli che se la tirano, nell’universo romagnolo non possono entrare se non pagando il pegno della derisione. Anche oggi.

Negli anni ’50, date le condizioni economiche e sociali generalmente diffuse, il darsi le arie, veniva interpretato come un rifiuto, il voler rinnegare le proprie origini e l’appartenenza alla comunità del dialetto, del cibo semplice ma saporito, delle espressioni colorite, insomma rinnegare la “propria gente”. La cosa veniva accettata con una certa benevolenza se messa in atto da chi, comunque, non aveva cattive intenzioni ma era, trattandosi di donna, una “sciaparlina”; imperdonabile, invece, l’arricchito dell’ultima ora: ”e’ bdòç arfat”, per intenderci… “da quand l’ha fat i sòld…e fa fadiga a guardèt tlà faza” al pari di “da quand l’ha fat furtuna..un saluta gnènca pió”.
E se non erano i soldi era il mestiere: in una comunità dove dominavano lavori umilissimi, alternati allo stato di disoccupazione, ci voleva poco per sentirsi elevati. Ricordo ancora lo scambio di battute tra un amico, da poco assunto come barelliere(e’ purtantèin) in ospedale ed il babbo, il primo “oggi ABBIAMO fatto dieci appendiciti”, il babbo: “ta gli è fati tè? Té t’avrè purtè via al budèli!”
Non diversamente da quello che si gonfiava il petto con “oggi in Comune abbiamo..”, commento: “ ma sé tè tcè e’ dunzèl.. t’an sé gnènca qual è la porta dè séndic..”.
E non mancava quella che esibiva il collier girando e rigirando la medaglietta fino ad ottenere un effetto ipnotico, ignara del commento delle amiche invidiose “la fa veda è colliè…ma per cumprè l’òr i sta sènza magnè..” quando non “e’ su marìd uj rigala e’ collié per fè péri s’al corni cuj fa..”. Stessa cosa per le scarpe nuove, tanto che qui si erano inventati il “maza la béssa”…ovvero la biscia immaginaria che veniva indicata col piede da chi calzava scarpe nuove e cercava di metterle in mostra.. Già pronunciare correttamente i nomi degli attori stranieri, poteva apparire un antipatico esibizionismo abituati, com’eravamo, ai nomi italianizzati: gerri levis, toni curtis, lana turner. Non dimeno il tentativo usare termini nuovi, per il nostro limitato “vocabolario domestico”, letti ma mai sentiti pronunciare correttamente: così supèrfluo diventava superflùo. E poi c’era quello che aveva studiato e si dava le arie, trattando tutti con la puzza sotto il naso, in virtù di “quel pezzo di carta” che, a suo parere, diventava il lasciapassare per uscire dalla cerchia “di purét”, mentre mamma Elsa commentava “la studiè mu n’ha capì gnìnt”, affermando così l’assoluta verità che la vera cultura porta rispetto per gli altri e la capacità di capire e far coesistere sensibilità e condizioni diverse e ce lo spiegava con una storiella.

Un bel giorno, il figlio del contadino, tra l’orgoglio dei genitori, torna a casa fresco di laurea.. Suo padre, dati gli anni trascorsi fuori dal figlio, lo porta in giro per la fattoria per mostrargli le ultime novità. Il ragazzo si dimostrava indifferente, anzi infastidito e quando il babbo gli mostrava le piante e, soprattutto, i nuovi attrezzi, commentava di non sapere cosa fossero quelle e quelli.. dato che i suoi studi lo avevano portato in altri campi… finché, distratto, inavvertitamente mette i piedi sui denti di un rastrello facendo sbattere il manico sul suo viso, al che se ne uscì con un “azidènt …ènca è rastrèl.. “ ed il babbo “ah alóra tal sé cus clè..”.
Morale: si può e si deve essere orgogliosi di ogni progresso conquistato, nel nostro cammino, col nostro merito…ma l’infezna che riceviamo dalla nascita resta un patrimonio cui attingere per tutta la vita… e più s’invecchia, più si rinvigorisce.

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