“E’ ven zó e’ quercin”

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Pubblicato la prima volta il 6 Febbraio 2019 @ 08:47

“Cosa ci hanno lasciato” di Grazia Nardi
Vocabolario domestico “E’ ven zó e’ quercin”

Trad. viene giù il coperchio: riferito a violento fenomeno atmosferico, quando, insieme alla pioggia, pare venir giù la volta celeste.

Nei modi di dire di quel tempo, il riferimento alle condizioni atmosferiche era ricorrente. “Im fa mèl i cal, e’ tèmp è cambia”, dunque il dolore alla dita dei piedi diventava una previsione metereologica; ”a jò di dùlùr dapertót..”, commento: “l’è tóta colpa ad stè tèmp…un pèz l’è frèd, un pèz l’è chèld… uns capés pió gnìnt.”; “a jò un mèl tal gl’òsi…”, motivo: “l’è tóta st’umidità chè la t’èntra dèntra…”.
Così lo “sfogo” (brufoli e rossore) in faccia veniva per “è cambie ad stasòun”, “al vulàtghi” (macchia rossa con bollicine secche sulla pelle) apparivano se ti esponevi col volto bagnato al vento freddo, gli occhi rossi erano dovuti sempre “m’un cólp ad èria..” ugualmente per “è mèl d’urèci..”, per non dire di quelle mani rosse, anzi violacee, gonfie e doloranti che, raramente protette da guanti, si prendevano, col freddo invernale, “i gelùn”, non a caso, oggi, pressochè scomparsi.
Certo erano modi di pensare, prima ancora che di dire, legati alle tradizioni trasmesse dai più vecchi e, non di rado, da forme di superstizione ma erano anche un modo per esorcizzare i malanni dandosi degli alibi per non prenderli troppo sul serio dato che non c’era tempo: non ci si poteva fermare dal lavoro né c’erano soldi per medici o farmaci; così, se la causa del male era naturale (e cosa c’è di più naturale della nebbia, del vento, del freddo.?), allora altrettanto naturale poteva essere il rimedio: impacchi coi semi di lino per la bronchite, fumenti con la camomilla per la tosse, lavande e gargarismi con la malva, non so in quanti sappiano che la “cura” per le volatiche era spalmarci sopra pipì di neonato! Mentre per l’otite bisognava usare la propria e, come sappiamo, i rimedi naturali non valevano solo per i guasti fisici dovuti al tempo se è vero che la slogatura veniva trattata con la cerata d’uovo, la scottatura con i massaggi, più noti come le “sfreghe”, di patata tagliata.

E anche il sole, ancorchè rappresentasse la liberazione dai diversi strati di indumenti, la possibilità di lavarsi con acqua fredda, anzi “giaza” come si diceva allora, il risparmio della legna e della luce dava i suoi problemi: “nu scàpa sa gnìnt tlà tèsta che t’ciàp n’insololaziòun”; che poi il “berretto” per noi bambini era il fazzoletto da naso, di quelli grandi, con quattro nodi o, al massimo, per le femminucce, il fazzoletto da testa legato sotto la nuca… e credo sia oramai nel bagaglio generale dei ricordi quel cappellino fatto coi fogli di giornale che si mettevano in testa i muratori.
Io odiavo la pioggia. E non solo perché, a periodi, il tetto di casa “perdeva” lasciando filtrare gocce d’acqua che raccoglievamo nel secchio.. sì proprio come si è visto in tanti film di Totò. Odiavo la pioggia perché voleva dire testa e piedi perennemente bagnati. Quando già le compagne di scuola avevano graziosi ombrellini e mantelle colorate di tela cerata.. i bambini appartenenti della mia condizione economica e sociale non avevano niente così o ci si riparava sotto l’ombrello dei “grandi” o ci si bagnava nonostante le corse con la cartella sopra la testa o la tattica di camminare rasente i muri confidando nel riparo dei cornicioni. Per i piedi non c’era speranza, quelle scarpe con la suola incollata, a contatto con l’acqua, si aprivano inesorabilmente sulla punta inzuppando calze e piede..per non dire degli scarponcini che solo a vista sembravano più protettivi perché la gomma a “carroarmato” in realtà era piena di sughero e la tomaia più simile ad un panno che alla pelle. Ricordo una volta che, tornata a casa con gli scarponi bagnati, la mamma li mise ad asciugare nella parte inferiore della stufa dove non arrivava la fiamma… il calore tuttavia fece raggrinzire e restringere la tomaia come fossero pantofole e mi trovai ad indossarle come se fossero di un numero inferiore al mio.

Sarà per questo che, divenuta adulta, al primo stipendio sono entrata nel negozio più lussuoso di Corso D’Augusto dove mi sono tolta la soddisfazione di comprare gli scarponcini più costosi, morbidi e resistenti allo stesso tempo, rifiniti con talmente tanta cura che, seppur oramai consumati, li conservo ancora… e quella fissa delle scarpe mi è rimasta: poche e buone.

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